Palazzo Chizzola Porro Schiaffinati

Il palazzo Chizzola Porro Schiaffinati è sede degli uffici Amministrativi e di Tutela Architettonica, Paesaggistica e Storico-artistica.

salone dell'Olimpo

La famiglia Chizzola del ramo di Chiari 

Secondo recenti studi, condotti dai discendenti della linea austriaca del casato e da alcuni storici locali, l'origine dei Chizzola risalirebbe a tempi molto antichi, come testimoniato dalla presenza del blasone familiare all'interno del grande salone del Broletto cittadino. 
Nel 1399, grazie a una donazione in denaro al monastero di San Nicola a Verziano per alcuni lavori di restauro, venne concessa in enfiteusi a Giacomo Chizzola una vasta proprietà terriera a Maclodio, con possibilità di trasmissione alla discendenza in linea maschile. Da quest'atto deriva l'imprecisa affermazione, ripresa più volte da alcuni storici bresciani, che i Chizzola fossero valvassori di questa località. Nel 1407, Pandolfo Malatesta concesse alla casata numerose esenzioni fiscali tra cui quella sui terreni di questo territorio. 
I membri della famiglia Chizzola si divisero poi in due rami, uno stanziato ad Erbusco e l' altro a Chiari, da cui discesero i proprietari del palazzo di via Calini. 
All'avvento della Repubblica Veneta, per le loro simpatie imperiali e viscontee, essi vennero privati dei beni feudali, ma nel 1441 fu loro concesso di tornare in patria e di riappropriarsi dei numerosi possedimenti confiscati. 
I discendenti del ramo clarense decisero nel XV secolo di trasferirsi tra le mura della cittadella vecchia, che stavano per essere abbattute. 
Gerolamo Chizzola edificò nell'attuale via Gezio Calini la propria residenza tra il 1520 e il 1530 e nel 1534 dichiarò di abitare lì con i nipoti Maffeo e Giacomo, rimasti orfani. È possibile datare questa costruzione osservando l'incisione edita da Donato Rascicotti risalente al 1599 e rappresentante la città in maniera veritiera e precisa: nella porzione di mappa considerata (Viale dei Cappuccini, vicino alla porta di S. Alessandro) si può notare un agglomerato di case, tra le quali compare anche quella citata. 
Giovan Battista Chizzola, a metà Settecento, decise di promuovere la ricostruzione del palazzo familiare attraverso l'edificazione di una dimora con pianta ad "L", scelta forse dovuta all'impossibilità di ampliarsi a ovest. L' intervento è da porsi attorno al 1750, data ricavata considerando gli studi riguardanti il salone dipinto da Carlo Innocenzo Carloni. In quest'ambiente compare inoltre lo stemma della famiglia Chizzola, realizzato in occasione delle nozze tra il conte Paolo e Bianca Maggi. 
Per quanto riguarda il progetto architettonico del palazzo, non sono stati trovati dati che chiariscano la paternità dell'edificio, anche se esso viene tradizionalmente assegnato all'abate Antonio Marchetti. Alcune fonti, tuttavia, vorrebbero attribuirne l'edificazione al capo-mastro Pietro Antonio Cetti, figlio del comasco Giovanni. Il palazzo sarebbe stato iniziato dal padre ma per motivi non conosciuti portato a termine da Pietro Antonio. Accertata è invece la relazione tra Cetti e Antonio Marchetti in occasione della realizzazione della chiesa parrocchiale di Pisogne. 
II palazzo, all'epoca delle sua costruzione, non aveva un singolo proprietario, ma era frazionato tra i vari membri della famiglia Chizzola; le successive suddivisioni si possono ancora facilmente distinguere nelle sezioni relative a questa zona delle mappe napoleoniche del 1812-1813. 
Questa situazione mutò in seguito, poiché l'edificio a metà ottocento passò interamente a Camilla Chizzola, con cui si estinse il ramo familiare di via Calini per via maschile (si noti che nella mappa catastale austriaca scomparve la suddivisione in lotti ed il palazzo venne rappresentato e considerato nella sua interezza). Nel 1916 Federica Cadeo, nipote di Camilla Chizzola, sposò il conte milanese Alfonso Porro Schiaffinati portando in dote il palazzo di via Calini, che da quel momento prenderà dunque il nome di palazzo Porro-Schiaffinati. I figli di questi ultimi, Gaetano e Luchino, donarono l'edificio nel 1968 all'Opera Diocesana "Carlo e Giulia Milani", che poi lo cedette a sua volta nel 1976 all'allora Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, divenendo sede della Soprintendenza di Brescia dal 1980.

Palazzo Chizzola Porro Schiaffinati 

Il palazzo è considerato una delle più rilevanti realizzazioni architettoniche a Brescia della metà del XVIII secolo in quanto sintesi tra gli elementi assodati del primo Settecento ed esperienze innovative derivanti da ricerche progettuali sempre più approfondite. 
La costruzione sviluppata lungo una planimetria a "L" è divenuta tale in seguito alle acquisizioni negli anni dei vari lotti che erano accanto alla preesistente abitazione; non si può dunque considerarlo un palazzo planimetricamente tipico del ‘700, poichè il modello più utilizzato era quello formato da un corpo orizzontale centrale e due ali che racchiudevano il cortile. Come di consueto, la parte di rappresentanza del palazzo costeggia la strada e coincide con la facciata esterna asimmetrica e leggermente convessa. Realizzata con grande qualità principalmente nelle aperture del piano nobile, pur essendo dotata di decorazioni essenziali e di un portale d'ingresso modesto, è una costruzione elegante e sobria, forse appositamente realizzata per non turbare la bellezza sia del cortile sia degli ambienti interni. Una volta superato il portale si giunge nell'atrio da cui si scorge in lontananza il giardino, sapiente espediente che crea aria e luce tra il costruito e la natura e un suggestivo effetto prospettico. Nella parte sud-est della corte è presente una piccola fontana posta trasversalmente. Fausto Lechi considera questa vista "[…] tra le prospettive bresciane, una delle più piacevoli e belle". 
Tre campate con colonne binate toscane che si uniscono (per mezzo di un architrave) a paraste binate del medesimo ordine, unite oggi da un cancello, dividono l'androne dal portico che si sviluppa seguendo la conformazione ad "L", interrompendosi in maniera suggestiva con l'inizio dell'ala est. Si può considerare questo portico singolare (sorretto da colonne binate simili a quelle dell'atrio) in quanto, delle sette campate che lo caratterizzano, quattro sono più strette con architrave rettilineo (si noti la riduzione da trabeazione a semplice architrave) e sovrastante un'apertura rettangolare,mentre le restanti tre sono più ampie e sovrastano un'arcata. Interessanti sono le soluzioni adottate dall'architetto nelle terminazioni del colonnato ai due lati: all'estremo ovest l'architrave si interrompe circa a metà incontrando la parete (non vi sono dunque le ultime colonne binate previste dallo schema), cosa che accade anche alla parasta sulla parete retrostante per permettere la costruzione dello scalone; dalla parte opposta, invece, l'arcata è sorretta da una semicolonna che emerge dalla parete e a fianco, dopo un modesto ingresso con trabeazione, vi è una piccola parasta ad angolo. Qui si sviluppa una ulteriore campata affinché l'ala del palazzo che si protende verso il giardino sia collegata con il resto della costruzione; essa è sorretta da due colonne toscane singole, unite al resto del colonnato per mezzo della continuazione nell'angolo dell'architrave. Sopra questa campata è stata realizzata una loggia sorretta da due colonne ioniche. 
Analizzando la parte interna del palazzo si può percepire una sorta di rappresentazione scenica dell'architettura, poiché lungo l' ultima campata a ovest del porticato si inserisce lo scalone con una piccola parte di rampa e un pianerottolo, accompagnati da una balaustrata molto raffinata, tipicamente settecentesca e con le terminazioni che presentano una decorazione a voluta (nel pianerottolo e a piano terra). Da questo punto in poi lo scalone prosegue fino al piano superiore, incontrando, sia all'altezza del pianerottolo che al piano nobile, finestre fortemente strombate. 
L' architetto, per ovviare alla mancanza di un ampio spazio in lunghezza ove poter collocare il tipico scalone settecentesco e volendo mantenere intatto lo schema e le proporzioni del portico, decise di costruirlo di dimensioni notevolmente ridotte rispetto ai canoni del periodo. Se si volesse provare ad immaginare lo sviluppo degli ambienti interni semplicemente osservando la facciata esterna, molto probabilmente si giungerebbe a conclusioni errate; infatti alla signorile pacatezza degli esterni si contrappongono vaste sale e salotti magnificamente decorati. Percorrendo tutto lo scalone e dirigendosi a sinistra si entra al primo piano nel grande salone, la cui volta venne decorata da Carlo Innocenzo Carloni con un notevole affresco realizzato attorno al 1750 in cui sono rappresentati il banchetto di nozze tra Peleo e Teti e la scena in cui Mercurio accompagna Venere Giunone e Minerva al giudizio di Paride. 
La scena è racchiusa da una larga cornice con decorazioni architettoniche, arricchita da quattro medaglioni gialli raffiguranti putti bacchici e da trofei d' armi ai quattro angoli; altri trofei simili costituiscono poi una parte di ornamento delle pareti, decorate trent'anni dopo in occasione lo sposalizio tra Paolo Chizzola e Bianca Maggi. Lungo il lato rivolto verso la strada sono presenti tre sale decorate verso la fine del 1700: la prima ha dipinti quattro paesaggi sulla volta e sugli ingressi stucchi rappresentanti l'Aria, l' Acqua e il Fuoco, di chiaro stile neoclassico, la seconda presenta un medaglione con Venere e Amore al centro del soffitto e, come il terzo ambiente, sovrapporte paesaggistiche. Verso la corte si trovano due stanze con soffitti decorati a monocromo a motivi fitomorfi: in quella che si percorre subito dopo il salone le pareti sono di colore giallo, fortemente in contrasto con le cornici rosa degli ingressi e i riquadri verdi sovrastanti; essa presenta decorazioni pittoriche raffiguranti i quattro continenti e il mito del carro di Fetonte. Nella sala successiva, poi, sono rappresentati episodi tratti dalle metamorfosi di Ovidio. 
Nell'ala est è presente una sala con un caminetto in breccia marrone; ad essa segue poi un ambiente un tempo bipartito per la presenza di un'alcova decorata con stucchi, di cui purtroppo non rimane quasi più traccia a causa di ampie manomissioni novecentesche.

(ICCD NCTN 3.00 0300727633A)


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